
Già dal suo titolo il congresso ha voluto esprimere una tensione verso il futuro, uno slancio che, dal presente inteso come soglia, apre al nuovo. Un invito a leggere l’attualità del counselling come un campo di segni, di esperienze e di pratiche in evoluzione, da cui far partire una riflessione teorica in grado di restituire una rappresentazione aggiornata della professione e descrivere le traiettorie che caratterizzano lo sviluppo e la specificità del modello italiano.
Le “tracce” rappresentano ciò che in questo sviluppo si è sedimentato nella pratica, nelle esperienze, nelle storie professionali, mentre le “rotte” indicano la direzione di un cammino in cui la nostra professione non si contenta del suo progressivo consolidarsi, ma intende interrogare se stessa alla ricerca di un senso sempre più autentico e concreto.
Se, alle origini della sua diffusione in Italia, il counselling si è caratterizzato per la ricchezza di teorie e modelli, nonché per la naturale carenza sul piano della pratica, nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la Legge 4, la tendenza si è invertita. La prassi si è consolidata e si è diffusa negli ambiti applicativi più vari, dando vita a una professione matura, riconoscibile e chiaramente distinta dalle pratiche della relazione d’aiuto di tipo clinico. A questo sviluppo concreto, tuttavia, pare non essere corrisposto un aggiornamento della riflessione teorica capace di accogliere e sistematizzare i nuovi orizzonti dell’esperienza.
Serve, dunque, l’avvio
di una nuova fase di analisi teorica che consenta la definizione di un quadro
epistemico unitario, coerente e autonomo, capace di accogliere le diverse
epistemologie e i differenti modelli come manifestazioni di una medesima
matrice originaria.
Il che – come ha
dimostrato il congresso del CNCP – rientra nel campo del possibile e
dell’attuale.
Prima ancora che una pratica professionale, il counselling è – dal punto di vista logico – un fatto culturale, una visione del mondo, una weltanschauung, che si fonda su un presupposto semplice e radicale: la fiducia nella natura umana, nella sua capacità di orientarsi, trasformarsi e autorealizzarsi. Alla base di questa prospettiva vi è un principio etico preciso: il rispetto per la centralità della persona, intesa non come oggetto di intervento, ma come soggetto di senso, portatore di significati e risorse propri.
Da esso discende un’etica
della relazione nella quale ogni azione e ogni parola si misurano sulla
capacità di restituire all’essere umano il suo stare ed essere al centro.
L’empatia rappresenta lo strumento più naturale e al tempo stesso più sofisticato di questa postura. Non è soltanto un atteggiamento di apertura, ma un processo generativo che realizza contesti capaci di produrre consapevolezza, crescita e libertà. Empatizzare significa accedere all’esperienza dell’altro dal suo interno, sospendere il giudizio e osservare la realtà attraverso il suo modo di interpretarla, di modo che, proprio entro questo spazio, l’altro possa ritrovare la propria capacità di comprendersi, di scegliere autonomamente, di autorealizzarsi. Una particolare specie di empatia, dunque, che si caratterizza per il fatto che non consola, ma attiva, restituendo e alimentando possibilità, movimento e senso.
In una cultura come la presente, segnata da una nuova sofistica dove la resa al relativismo eudemonistico trasforma la verità in opinione e la morale in pratica utilitaristica, il congresso del CNCP ci consegna un concetto di empatia che rivela di possedere una radice biologica che è invece capace di ridare ragione del fondamento oggettivo dell’etica.
Gli studi sui neuroni specchio e la preziosa lectio presentata da Giacomo Rizzolatti mostrano, infatti, sul piano della scienza, che la risonanza con l’altro appartiene alla struttura stessa dell’umano, precedendo la cultura e la stessa dimensione psicologica. Da questa radice biologica si origina la possibilità per una oggettivazione della morale e della verità non riducibili ai capricci della soggettività. Da una parte una morale che sgorga come movimento naturale della coscienza e che soltanto nella relazione trova la propria misura etica. Dall’altra, un concetto di coscienza che, pur accogliendo l’eredità hegeliana del superamento dialettico della dicotomia tra soggetto e oggetto, ne oltrepassa l’impianto conflittuale.
Se in Hegel la coscienza di sé si afferma nella lotta, nel confronto dialettico tra due autocoscienze che cercano di essere riconosciute attraverso la sopraffazione (fino alla soglia simbolica della “lotta per la vita e la morte”), l’esperienza empatica rovescia questa dinamica e mostra che la relazione non nasce dalla contesa, ma dalla risonanza. L’autocoscienza si riconosce nell’altra autocoscienza non negandola, ma accogliendola, e il riconoscimento non si realizza nella conquista, bensì nella disponibilità a lasciarsi toccare dall’esperienza altrui. Ne scaturisce una dialettica nuova, fondata sulla capacità di comprendere, in cui la consapevolezza di sé non deriva più dal confronto competitivo tra le coscienze, ma si realizza nella reciprocità e nella mutua trasformazione. Ogni individuo si modifica nell’incontro e, attraverso tale mutamento, riconosce la propria verità più autentica.
In questo senso, l’empatia si configura allora come una forma
concreta di libertà, capace di affermare senza negare, che permette a ogni
coscienza di esprimersi pienamente entro il proprio orizzonte di senso, il
quale è sempre nella relazione. Non si tratta soltanto di un modo di stare con
l’altro, ma di una vera e propria forma di conoscenza che fa emergere la verità
non come prodotto della singola coscienza, bensì come esperienza condivisa,
generata dall’incontro e dal riconoscimento reciproco tra persone.
Su questo fondamento si radica il counselling, quale traduzione concreta e quotidiana di tale tipo di conoscenza. Il counselling è, infatti, uno spazio di ascolto e di presenza autentica in cui la comprensione reciproca apre alla possibilità di un dialogo trasformativo, capace di promuovere consapevolezza e cambiamento. E all’interno di questo orizzonte, la stessa relazione d’aiuto si ridefinisce profondamente. Non più luogo della cura o della riparazione, ma laboratorio di umanità, spazio relazionale nel quale ogni persona — sentendosi vista, accolta e riconosciuta nella propria unicità — può riorientare la propria storia e generare nuove possibilità di esistenza per un miglior percorso di vita.
Nel counselling questo principio si traduce in una postura precisa. Il counsellor non è portatore di una verità da trasmettere, ma riconoscere nell'altro l'unico possibile esperto di
sè e lo accompagna a prenderne consapevolezza. Entrambi, counsellor e cliente, abitano la stessa condizione - socraticamente filo-sofica - del "sapere di non sapere", per la quale la verità non si comunica, ma si genera nel dialogo, nel percorso condiviso che trasforma chi parla e chi ascolta.
In questa luce, il counselling si definisce come una scommessa sulla parola, intesa come luogo denso e generativo, e sulla relazione, sperimentato come spazio di verità. Raccontare – una vita, un fatto, un’esperienza – non è mai un gesto neutro, ma un atto di costruzione del mondo, un feedback rimandato alla realtà, di modo che essa possa misurare la verità nel punto e nel luogo in cui essa stessa si è coglie.
In questo senso può, forse, consistere il significato più fecondo e puntuale della definizione che ancora Hegel diede della maieutica socratica, intesa come l’arte di accompagnare l’interlocutore nella conquista della “verità colta in proprio”, una verità che, pur avendo carattere oggettivo, può essere raggiunta solo attraverso un percorso personale, di cui ciascuno è il solo responsabile.
Ed è, forse, proprio qui
la rotta di futuroindicata dal congresso, nella consapevolezza che la
verità del counselling non risiede prioritariamente nei modelli teorici, ma
nella relazione che li attraversa; non nella teoria astratta, ma
nell’esperienza viva della reciprocità.
Là dove due persone si
incontrano e, nel rispecchiarsi, si trasformano, il counselling trova la sua
scienza, la sua etica e il suo metodo.
Non resta, pertanto, che
approfondirne la ricerca e lo studio.
Buon lavoro a tutte e tutti